sabato 30 marzo 2024

IL CORAGGIO

Don Enrico Bigatti


“Ave Maria piena di grazia…”, “ave Maria piena di grazia…” continuava come un disco rotto in testa l’invocazione a Maria da parte di don Enrico, parroco di Crescenzago.

“Ave Maria, ave Maria” … “devo fare qualcosa per questi giovani, altrimenti domani mi ritroverò a celebrare il funerale dei ragazzi con le loro mamme piangenti”.

Le gambe si mossero da sole e da solo, tra raffiche di mitra, don Enrico si ritrovò davanti alla colonna di mezzi militari tedeschi che rapidamente scappavano dal centro di Milano, per guadagnare il Brennero.

Eppure non era la prima volta che il prete di questo borgo rischiava la vita, lui solo con la sola compagnia dell’invocazione alla sua amata Maria madre di Dio.

L’altra volta era stato quando qualche suo parrocchiano (forse per poter mettere qualcosa sotto i denti) andò a denunciarlo per quel reato orribile: aiutare poveri ebrei e oppositori politici a scappare in Svizzera.

La parrocchia di Crescenzago era diventata infatti un centro di smistamento per tutti coloro che scappavano dal regime nazi-fascista con destinazione Lugano.

Don Enrico Bigatti (classe 1910), membro attivo dei clandestini scout, si era dato da fare sin dal suo trasferimento nel suo borgo natio e qui era riuscito a salvare tante persone che si erano rifugiate nella neutrale Svizzera.

Ma a gennaio del 1944 venne prelevato dalla polizia per essere rinchiuso a san Vittore, nel quale doveva solo aspettare la fucilazione in compagnia di altri detenuti politici. Eppure lui sapeva che dopo aver ricevuto la fredda pallottola nel cuore, “dall’altra parte” avrebbe trovato il caldo abbraccio della Madre Celeste.

Ancora ricordava l’abbraccio (l’unico) della sua mamma terrena che gli regalò in un imprecisato giorno della sua infanzia dalle ginocchia sbucciate. La sua povera mamma: rimasta così presto vedova e schiacciata dalla responsabilità di dover crescere da sola lui e i suoi 3 fratelli. Eppure lo fece studiare e diventare prete, quello che più desiderava nel profondo del suo cuore.

Con il rosario in mano, eppure, quel freddo giorno del 18 febbraio 1944 la porta della cella si aprì e la voce del carceriere dall’altra parte diceva “Bigatti fuori, sei libero!”

Che gioia in quel momento! E quanti rosari recitati per ringraziare la Madonna!

Ma il coraggio non morì con lo spavento di quel mese trascorso a san Vittore.

Era lo stesso coraggio che faceva muovere le sue gambe nel famoso giorno del 25 aprile 1945 verso via Padova, attraversando il Ponte Vecchio e correndo con il fazzoletto bianco tra le mani, sventolandolo, tra raffiche di mitragliatrici partigiane da una parte e tedesche dall’altra.

Ancora una volta la sua adorata Madre Celeste l’aveva protetto fino al paraurti di quel carro militare teutonico il quale, trovandoselo davanti, non procedette logicamente imperterrito sulla sua strada, ma inchiodò con un colpo secco di freni.

Don Enrico a quel punto si avvicinò a quello che sembrava essere il capo sul mezzo tedesco e, in chissà quale lingua, propose un patto da rispettare seduta stante, senza possibilità di compromessi: “gettate le armi e i miei parrocchiani non spareranno neanche un colpo. In questo modo voi potrete procedere sulla vostra strada e nessuno si farà male”.

Seguì un silenzio tale che nemmeno gli uccellini se la sentirono di dire la loro.

Silenzio.

“Ave Maria, piena di grazia” continuò a macinare preghiere il cervello del prete.

“Ma che cazzo fa?!” pensò il Toni nel vedere il parroco fermo davanti ai soldati tedeschi che parlottavano tra di loro.

“Devo essere bravo a colpirli in fronti ‘sti maledetti fasci senza beccare il prevosto.”

Così pensava il Toni insieme ai suoi compagni asserragliati lungo la via Amalfi fino alla via Idro, quando a un certo punto il silenzio venne interrotto dal rumore metallico delle armi tedesche lanciate fuori dalle camionette.

I nazisti avevano accettato la proposta del prete: e ora una sgasata di motori puzzolenti annunciava il prosieguo del cammino dei crucchi verso la loro patria.

I giovani partigiani guardavano sfilare questi nemici dalla pelle troppo chiara chi con sollievo, chi con delusione e chi ancora con tanto odio racchiuso tra le dita che stringevano i fucili.

Passata l’ultima camionetta trascorse ancora qualche secondo di quello strano silenzio, quando a un certo punto si sentirono delle urla di gioia provenire dalle case di una Crescenzago ancora sbigottita dall’accaduto. Erano le donne del borgo che uscivano dai loro rifugi per andare ad acclamare don Enrico.

Il don a quel punto smise di recitare gli “ave Maria” per iniziare ad abbracciare le sue compaesane (d’altronde era anche lui un uomo e quale godimento il profumo naturale delle sue giovani parrocchiane!).

Passato lo spavento, la stanchezza si impossessò del prete eroe il quale decise per quella sera che sarebbe andato a dormire senza cena e senza aver recitato il rosario (in fondo, di ave Maria ne aveva già recitati abbastanza).

Gli uomini in compenso si ritrovarono in quello che fino a 20 anni prima era il municipio di Crescenzago, per discutere dell’accaduto e qui le opinioni erano diverse, i toni alti, le parolacce all’ordine del giorno, la tensione abbondante e il vino la magica spugna capace di calmare tutti gli animi.

Alle 2 di notte il capo brigata dichiarò, con la bocca impastata, chiusa la riunione del Comitato di Liberazione sezione Crescenzago e qualcuno pensò bene di andare a fare, suo malgrado, il bagno nel naviglio, mentre qualcun altro arricchì le acque della Martesana con il contenuto del suo stomaco.

Finì la guerra e don Enrico ancora ripensava a quell’incredibile giorno (e agli abbracci che ne seguirono) e, per ringraziare la Madre Celeste, commissionò un affresco sul ponte che lo vide correre incontro ai soldati tedeschi. Da allora infatti in piazza Costantino fa bella mostra di sé la Madonna della Liberazione.

Madonna della Liberazione 
Foto tratta da www.chiesadimilano.it

Passarono gli anni e la Germania a quel punto non faceva più paura. Tutti in Italia si erano armati di auto e anche il cinquantenne don Enrico si recò per una commissione parrocchiale in quel di Inzago dal quale però non tornò più, vittima come molti, non di una mitragliata nel petto, ma di un banale incidente d’auto.

 

Nel 1949 don Enrico compose questa canzone a ricordo degli anni della guerra e dell’episodio vissuto.


LA MADUNINA DEL PUNT

Te se ricordet, in temp de guera, quand, o Madona, i por giovinott,
del Bôsch, di Trecà, de via Berra,
de tutt Crescenzàg, con ‘te el fagott
passavan de chi per andà ‘l frunt, e ti te piangevet in sul punt?

Quand la matina vu a lavorà,
e quand la sera se vegn a cà,
la Madunina l’è semper là.

Quand poeu vegniven a bômbardà,
Te se ricordet che finimund!
Scappava la gent lontan de cà.
Ti te seret sempre lì sul punt.
E vedend andà a toch tutt’el riôn
Te sciopava el coeur del gran magôn.

Quand la matina…

I mamm diseven di gran rosari,
Te domandaven la pas
 del mônd.
Ti, Madona, te guardà su in ari:
e finalment, propi lì sul punt,
gh’è succedù ‘na gran confusion.
L’era ‘l dì de la liberazion!

Quand la matina…

O Madunina, de cà sul punt,
passa el Navili, passa la gent.
Tutti i dolor de sto pover mônd
riven e vann. Te veg

net arènt.
Spettôm semper chi sera e matina:
mi voeuri vedètt, o Madunina.

domenica 7 gennaio 2024

SE PARIGI AVESSE LA MARTESANA SAREBBE UNA PICCOLA GORLA



Ritrovarsi a fare il "turista per casa" è cosa assai strana; ma decisamente di più è "andare a zonzo" in questo neonato 2024 lungo l’industrializzato viale Monza.

Ancora oggi i milanesi, durante i pomeriggi assolati, si ritrovano a passeggiare lungo la Martesana, ma nei primi anni dell'Ottocento andare a Gorla significava fare una vera e propria gita "fuori porta".

Questo borgo agreste divenne parte del territorio comunale solo nel 1923 e fino alla seconda metà del XX sec. avremmo potuto godere di un panorama di certo più omogeneo e accogliente.

Ad oggi infatti Gorla mantiene ancora un sapore antico, ma va ricercato tra i tanti edifici moderni che sono sorti al posto delle ville nobiliari che popolavano questo tratto di Martesana e dei loro orti.

Villa Angelica

Villa Angelica...ciò che ne rimane


Ecco perché al principio del XIX sec. Gorla fu denominata "Piccola Parigi": passeggiare tra le sue ville, lungo le sponde del canale artificiale e tra i suoi vicoli permetteva ai milanesi di sentirsi nella Ville Lumiere anche se a due passi dalla Madonnina.

Qui i milanesi venivano a godere della frescura lungo le sponde della Martesana, ma soprattutto si recavano a Gorla per le sue tante e deliziose trattorie.

Addirittura presso una di esse era possibile gustare il "caviale di Milano": nervo di ginocchio di manzo condito con cipolle, olio e sale.

Il panorama di viale Monza è decisamente cambiato: la speculazione edilizia del secondo dopo guerra si è preoccupata solo di offrire un tetto ai milanesi che erano particolarmente presenti nella zona nord della metropoli, vista la numerosa presenza di fabbriche cittadine.

Il risultato è un accumulo di stili architettonici disordinati e poco rispettosi del glorioso passato di questo angolo di città.

Ad oggi non è sopravvissuta nessuna trattoria e le ville nobiliari vanno ricercate con particolare attenzione.

Una delle storiche trattorie, ormai abbandonata


Tra le aristocratiche residenze spicca sicuramente Villa Finzi con il suo immenso parco (al termine della via sant'Erlembaldo).

L'ultima proprietaria di questa villa di delizie (1826) fu la nobildonna Fanny Finzi passata alle cronache cittadine per la sua filantropia. Destinò infatti la villa a nobili funzioni; es nel 1964 ospitava l'istituto per epilettici del Paolo Pini.

Tuttavia questa pia donna poco si curava delle fatiche dei suoi contadini: spesso erano costretti a fare turni di ben 14 ore per poter mantenere il suo sterminato parco. Parco che fece decisamente una brutta fine nell'inverno del 1941: i milanesi infatti, infreddoliti e provati dalla guerra, rasero al suolo tutte le piante qui presenti per potersi riscaldare.

Ad oggi il parco pubblico di Villa Finzi si presenta come luogo assai grande, ma dall'aspetto molto disordinato e trascurato. La stessa villa ottocentesca (un capolavoro del quartiere!) risulta essere poco curata e comunque soffocata dalla presenza di altri edifici moderni costruiti senza un particolare criterio e senza rispetto per la villa originaria (che pare ospiti dei bei soffitti neoclassici affrescati).

Villa Finzi

Villa Finzi, dettaglio


Ad oggi in questo parco possiamo trovare: un asilo nido, una scuola elementare, un centro diurno disabili del comune di Milano, un centro per soggetti Asperger, un centro socio ricreativo culturale (servizio diurno per anziani), una UONPIA, un consultorio famigliare, una scuola dove si tengono corsi di formazione professionali, uffici amministrativi del settore biblioteche (comune di Milano), il centro fragilità del comune di Milano (tristemente abbandonato).

Casa del custode di Villa Finzi?
Edificio abbandonato

Di fronte al Centro Diurno Disabili fa bella mostra di sé un piccolo edificio neoclassico (Tempietto dell'Innocenza) che anticamente proiettava la sua ombra su un lago artificiale, mentre oggi sorge (ricoperto da un elegante glicine) tra grigi corpi di fabbrica moderni.

Tempietto dell'Innocenza

Eppure il vero gioiello dell'intero parco è "Il Tempio della Notte". Quasi al confine con il muro perimetrale, si erge un piccolo monticello ricoperto da alberi. Solo nel 2005 ci si accorse che tra le radici c'era una grata che permetteva di entrare in un locale sotto gli alberi stessi. In origine questa altro non era che una ghiacciaia sporgente in gran parte dal terreno (ad oggi non visitabile). Tuttavia con il passare del tempo l'ambiente fu riconvertito a tempio ipogeo. Qui si suppone venissero fatti in passato dei rituali massonici (Milano non smette mai di stupire!).

Accesso al Tempio della Notte?

Tempio della Notte.
Immagine tratta da www.divinamilano.it

Altra testimonianza della bellezza ormai scomparsa di Gorla è Villa Singer.

Ma Villa Singer è anche storia di un amore. Amore, in questo caso, paterno.

La villa fu fatta costruire nei primi anni del Novecento da un eccentrico signore austriaco: Karl Singer.

Fu, sin dall'inizio, un laboratorio per la creazione di nuovi profumi. Gli anziani del borgo ancora raccontano di barconi che ormeggiavano nella Martesana carichi di radici ed essenze pronte a diventare coinvolgenti fragranze… Eppure, si sa, non sempre ciò che profuma di poesia attecchisce; fu così che nel 1934 la villa fu venduta a un ricco farmacista: Arturo Monti.

Questo immobile aveva un nobile scopo: permettere alla pittrice Maria di esprimere tutto il suo talento.

La giovane Maria infatti altro non era che la figlia unica del farmacista Monti. In quel periodo studiare per diventare pittrice veniva considerato sconveniente per una fanciulla di buona famiglia.

Fu così che papà Arturo decise di trasferirsi nella bucolica Gorla per permettere a sua figlia di poter dipingere in tutta libertà e en plein air.

Ad oggi la bella palazzina di piazza Piccoli Martiri è la residenza del pronipote dell'amorevole farmacista, nonché location di alcuni spot pubblicitari. Merito del nuovo proprietario è sicuramente quello di essere stato in grado di ricreare il gusto antico e un po' raccolto di questa casa dal passato armonioso, a due passi dallo smog di viale Monza.

spot girato a Villa Singer

Villa Singer e Ponte Vecchio


La dirimpettaia Casa dei Ciliegi rende anche lei particolarmente bello questo sorprendente quartiere milanese (se non fosse per i numerosi graffiti che persone incivili han pensato bene di lasciare sull'edificio storico). Ad oggi questa antica palazzina è un bel ristorante (casadeiciliegi), ma originariamente era il convento dei Padri Minimi, i quali amavano così tanto la natura da curare un bel ciliegio che faceva mostra di sé nel cortile.

Ristorante Casa dei Ciliegi


Eppure Gorla ha mantenuto la sua vocazione ad ospitare monasteri. Ad oggi infatti, a due passi dalla Casa dei Ciliegi, sorge uno delle poche comunità religiose di clausura di tutta Milano: il Monastero di santa Chiara.

La sua chiesa moderna (1958) è aperta ai fedeli, i quali possono anche acquistare piccoli lavoretti artigianali delle monache. Queste ultime presenziano alle funzioni religiose sempre dietro ad una inferriata a lato dell'altare maggiore.

Monastero di santa Chiara, presbiterio


Affresco che ritrae Maria circondata da bambini
(chiaro riferimento all’eccidio di Gorla) e,
nella parte inferiore, la strage degli innocenti.


Giardino interno del monastero
Foto tratta da www.federazioneclarisse.com



I cittadini di Gorla storicamente non hanno mai potuto godere di una propria parrocchia. Per assistere alle funzioni religiose infatti dovevano recarsi nella vicina Turro. Si provvide a questa mancanza solo nel 1895 con la piccola chiesa di san Bartolomeo… Talmente piccola che 24 anni dopo fu necessario costruirne una accanto decisamente più grande: chiesa di santa Teresa del Bambin Gesù.

E la piccola san Bartolomeo? Ad oggi i suoi muri ospitano una biblioteca gestita dall'ACLI.

Chiesa di san Bartolomeo


E' presente inoltre, a sinistra di viale Monza (dando le spalle a piazzale Loreto), un'altra struttura religiosa moderna e capiente: chiesa di san Domenico Savio (1964).

Chiesa di san Domenico Savio


Sempre al di là dell'antico "Imperial Regio Stradone" (l'attuale viale Monza), possiamo ammirare alcuni luoghi curiosi di questo bel quartiere: su tutti spicca il Cantun Frecc. Nato inizialmente come sciostra (magazzino per lo stoccaggio delle merci), nel tempo si è reinventato (addirittura fu trasformato in una filanda di seta). Caratteristica principe di questo antico edificio è il freddo ("Cantone freddo" sarebbe il suo nome in italiano): qui infatti ancora oggi non batte mai il sole (per la gioia dei suoi attuali condomini nei mesi estivi) e per questa ragione il sig. Peck (quello della gastronomia in Cordusio) faceva stagionare qui i suoi formaggi.

Cantun Frecc


Attualmente Gorla non viene più ricordata per la sua bellezza (in gran parte sfiorita, abbiamo visto), ma soprattutto per una infausta data: 20 ottobre 1944 (strage di Gorla).

Quella mattina le forze aeronautiche Alleate avevano il preciso compito di colpire tre obiettivi militari: gli stabilimenti della Isotta Fraschini, quelli dell'Alfa Romeo e gli stabilimenti della Breda nella vicina Sesto san Giovanni.

I bombardamenti sui primi due stabilimenti andarono a buon fine, provocando tra l'altro poche perdite tra i civili. La missione sulla Breda invece fu disastrosa su tutti i versanti.

La mattina di quella soleggiata mattinata gli aerei americani partirono da una base vicino a Foggia per poi dirigersi in due momenti distinti sulla Breda.

Il primo gruppo di bombardieri innestò le bombe sugli aerei troppo presto e per questa ragione non fece in tempo a sganciarle sullo stabilimento, ma se ne disfarono in fretta e furia nelle campagne cremonesi (non provocando vittime tra i civili). Il secondo gruppo di bombardieri invece trascrisse in maniera errata le coordinate e così si ritrovò in una zona sbagliata della città. In questa maniera, invece di liberarsi in maniera rapida delle bombe a bordo innestate in una zona poco abitata, le sganciarono esattamente dove si trovavano: sul centro abitato di Gorla. La popolazione era già da un po' nei rifugi antiaerei, a differenza dei bambini della scuola elementare che si stavano recando in quel momento nelle nei rifugi dell'istituto. Una bomba cadde esattamente nella tromba delle scale della scuola, andando a raggiungere il luogo dove si trovavano i piccoli scolari in quell'esatto momento. L'esplosione che ne conseguì non lasciò scampo a nessuno: nell'impatto morirono 184 bambini, 15 maestre e 5 bidelle.

Grande commozione provocò questa strage in tutta Italia, anche dopo la fine del conflitto bellico. La piazza dell'antico comune di Gorla presentava una voragine dovuta alla demolizione della scuola. Spazio vuoto che l'insensibile sindaco milanese di allora pensò bene di riempire con la costruzione di un cinema. Per fortuna questo non avvenne e al suo posto ad oggi sorge un commovente monumento con tanto di ossario nella cripta che costudisce le ossa delle innocenti vittime di questa follia umana.

 

Monumento ai piccoli martiri di Gorla.
Sulla parte sinistra si vede il bombardiere sganciare la bomba sulla scuola;
sulla parte destra il bombardiere torna dopo aver danneggiato la scuola.


Cripta del monumento
Foto di Bramfab


Altro edificio iconico del quartiere è senz’altro l’edificio che ospita il “Circolo famigliare di Unità Proletaria”.

Il famigerato circolo di viale Monza 140

Questo luogo, dal nome forse un po’ anacronistico, nacque in un anno molto particolare per il nostro paese: 1945.

Fino al famigerato 20 ottobre 1944 infatti, al posto di questo circolo, avremmo trovato la sala da ballo “El buschett”, poi rasa al suolo dai bombardamenti.

Con la fine delle ostilità, si decise di costituire una organizzazione stile Casa del Popolo (chiuse durante il Ventennio Fascista) per permettere agli abitanti di Gorla di ritrovare un po’ di spensieratezza incontrandosi per ballare, desinare insieme, andare a teatro…

Nel 1972 si stabilì qui un Teatro di fondamentale importanza per la città: Il Teatro Officina, che poi nel 1984 si spostò di qualche centinaio di metri (ad oggi la sua sede è in via sant’Elembardo, 2). 

Il Teatro Officina sorge nel cortile di un caseggiato popolare

A partire dal 1986 gli spazi che erano occupati dal Teatro Officina vennero utilizzati da Zelig Cabaret, divenuto in poco tempo famoso in tutta Italia. La nascita di questa istituzione milanese avviene esattamente un anno dopo la chiusura del Derby Cabaret. Quest’ultimo teatro è stato in grado di far nascere talenti del calibro di Giorgio Faletti, Diego Abatantuono, Teo Teoccoli… Altrettanto merito ha avuto lo Zelig nell’essere stato in grado di portare alla ribalta comici divertentissimi come Claudio Bisio, Antonio Albanese, Gioele Dix…

Vecchia insegna dello Zelig

Nel 1966 gli spazi al pian terreno occupati dalla sala da ballo vennero affittati e così nacque la discoteca "Il Tricheco" che, nella sua breve esistenza è stato in grado di far esibire in questi spazi cantanti famosi quali: Equipe 84, Patty Pravo, Gino Paoli, Sergio Endrigo, Adriano Celentano, Giorgio Gaber. 

Si legge "Il tricheco prenderà a botte i fabbricanti e gli spacciatori di biglietti falsi":)
Foto tratta da www.gianantoniomuratori.com


Nel corso degli anni gli spazi di viale Monza 140 non furono più sufficienti per ospitare i tanti appassionati di bocce. Per questa ragione fu affittato un locale in via Rovigno che con il tempo è diventato "La bocciofila Martesana" divenuta famosa nell'estate del 2023 per essere stata la location della hit dei The Kolors "Italodisco".

ITALODISCO


Abito a due passi dal Naviglio Grande, ma passeggiare lungo le sponde del Naviglio Piccolo (la Martesana) mi sorprende ogni volta. A differenza del canale artificiale vicino alla Darsena, qui non puoi trovare comitive di turisti giunti per consumare "l'ape milanese". E' la Martesana luogo di biciclette, di impiegati amanti del jogging serale, di anziani che ancora popolano questo angolo tipico di Milano (ricchissimo peraltro di risorse per la terza età), di immigrati che vivono e lavorano vicino alla metropolitana… Qui si respira ancora un'aria partigiana, di cabaret, di ville nobili che non si mettono in mostra, di grigi condomini che hanno saturato l'aria parigina che non c'è più, di treni di celentana memoria. 

Sogno per questo borgo milanese (e per Greco e per Crescenzago…) viaggiatori stranieri in compagnia di una guida turistica capace di far apprezzare a loro (e a noi) questo angolo bello di Milano (dalle sponde selvagge), magari assaporando un delizioso gelato (che qui latita).

Cantun Frecc, dettaglio

 

lunedì 9 ottobre 2023

BENVENUTO A VILLA NECCHI CAMPIGLIO. QUANDO ENTRI METTI LE PATTINE.

"Il poeta Checov" 1922 di Arturo Martini


Permane ad oggi in Italia la ferma convinzione che Milano sia un comune ricco. Poi ci si accorge che la maggior parte delle persone vivono in dignitose periferie e fanno i salti mortali per arrivare a fine mese, soprattutto perché questa non è una città “a buon mercato”.

Eppure esiste, a ben vedere, una fetta di popolazione che vive in centro (oggi si dice che appartengano all’area C) e per loro il discorso un po’ cambia.

E’ questa la sensazione che si prova nell’entrare a casa dei signori Campiglio.

La loro villa sorge in uno dei quartieri più esclusivi di Milano, il cosiddetto “Quadrilatero del Silenzio”: una parte della città che fino al 1890 altro non era che una zona verde occupata da orti e giardini (soprattutto appartenenti alle istituzioni religiose). Poi nel 1926 si decise di urbanizzare anche questo angolo rurale della industrializzata Milano. Eppure qui, diversamente da altri quartieri ad ex vocazione agricola, si scelse di tenere come valore cardine quello della bellezza. Ecco che ancora oggi girare tra le vie di questo quartiere ripaga il prezzo del biglietto del treno (per i turisti) o della metro (per i milanesi).

Si racconta che in una notte invernale i coniugi Campiglio stessero tornando a Pavia, dove abitavano, dopo essersi recati alla Scala. Quella notte la nebbia si poteva "tagliare con un coltello", tant'è che la loro vettura si perse dalle parti di via Palestro; a quel punto lo sguardo dei due passeggeri cadde su un cartello con su scritto “Vendesi terreno edificabile”. La signora Gigina Necchi in Campiglio, esasperata da questi stressanti andirivieni tra Pavia e Milano, propose al marito di acquistare il possedimento per poterci costruire il loro “pied-à-terre” meneghino.

Per farlo si rivolsero all’archistar più in voga del momento, Piero Portaluppi, il quale diede decisamente il meglio di sé nel progettare la casa dei padroni della fabbrica che produceva macchine da cucire.

Villa Necchi Campiglio, ingresso

La villa (1935, via Mozart n° 14) si decise di costruirla al centro della proprietà per far sì che gli occupanti non fossero disturbati dai (pochi) rumori della strada. Per accedervi ad oggi c’è un vialetto che ospita svariate specie arboree; comunque quello che colpisce entrando in questa casa museo è il suo lussureggiante giardino.

La villa circondata dal giardino

Giardino che ospita, a poca distanza dalla primo impianto di balneazione pubblico d'Italia (Bagno di Diana in viale Piave), la prima piscina privata in città. Oltre a questa i coniugi si fecero costruire anche un campo da tennis, ad oggi riconvertito a spazio di incontro per svariate manifestazioni culturali.

Piscina che aveva, tra l'altro, il "lusso" di essere riscaldata


Quello che colpisce nell’entrare in casa è, oltre al lusso, i colori degli interni che tendono tutti alla tonalità del marrone (cromie di moda nei primi decenni del Novecento).

Salone di ingresso


Il piano rialzato era il luogo di rappresentanza e zona giorno, il primo piano risultava essere la zona notte, il sotto tetto ospitava le stanze della servitù, nel seminterrato avremmo trovato la cucina e gli spogliatoi per la piscina, la palazzina staccata dalla villa fungeva da alloggio del custode nonché da rimessa.

La parte più lussuosa e luogo di esposizione della bellezza accumulata dai padroni di casa era senz’altro il piano rialzato. Il primo piano ospita la camera da letto dei coniugi e la camera di Nedda Necchi, sorella zitella (allora si diceva così) di Gigina, nonché convivente della coppia. Il sottotetto (ad oggi sede di esposizioni artistiche temporanee) ha un tenore decisamente diverso: ambienti minuti e poco arieggiati davano alloggio al numeroso personale che manteneva questa piccola reggia.

Salone al piano rialzato 

Uno degli innumerevoli bagni della casa
(quello in foto è di Gigina Necchi)
Autore dell'immagine: Saliko 


Sottotetto 


Le cucine avevano pareti di un verde particolare
che si credeva fosse in grado di tenere lontano le zanzare.
Foto tratta dalla pagina Facebook della Villa


Alla morte di Gigina Necchi-vedova Campiglio (nel 2001, alla veneranda età di 99 anni), non essendoci eredi, la villa venne donata al FAI. Gigina, alla vigilia della sua dipartita, disse alla allora presidentessa del Fondo per L'Ambiente: "Guardami negli occhi e prometti che terrai questa casa e la difenderai come casa tua!". 

Insomma noi tutti dobbiamo solo ringraziare le sorelle Necchi, le quali hanno deciso di donare questo gioiello architettonico alla collettività impreziosendo una Milano così d'élite, una Milano così popolare.

Sorelle Necchi (foto tratta da www. enciclopediadelledonne.it)

Una delle famose macchine da cucire prodotte dalla "Necchi"

L'elegante veranda.
Per rendere la villa più sicura,
le stanze che si affacciano su di essa sono protette da porte blindate


Citofoni collocati nel seminterrato
che permettevano ai domestici di comprendere
da quale stanza proveniva la chiamata.
Foto tratta da www.onedayinitaly,com


Stanza della guardarobiera.
Questa domestica era l'unica che poteva permettersi di dormire
sullo stesso piano dei proprietari


"Il dormiente" (1921) di Arturo Martini



"La famiglia". Mario Sironi (1929)
Opera artistica che descrive bene la suddivisione dei ruoli
all'interno delle famiglie italiane di quel periodo


F. Depero "O la borsa o la vita" (1934)